Nel borsellino c’era ancora qualcosa e io continuavo a pagare. Appena il denaro si esaurì, glielo feci notare. “A ciò si troverà facilmente rimedio” disse, e indicò in alto su un lato della carrozza, un paio di piccole tasche che avevo già ben notato prima, ma di cui non mi ero mai servito. Mise la mano in una delle due e ne trasse fuori alcune monete d’oro. Poi tirò fuori dall’altra alcune monete d’argento. Mi indicò così la possibilità di continuare a spendere come ci aggradava. E viaggiammo di città in città, di regione in regione. Eravamo allegri l’uno con l’altra, bendisposti verso chiunque e certo non pensavo che potesse lasciarmi di nuovo, tanto più che da qualche tempo ero oramai certo che aspettasse un bambino, e ciò non poteva che accrescere il nostro amore e la nostra felicità. Ma un mattino purtroppo non la trovai più e poiché senza di lei mi annoiavo a restare lì, mi misi nuovamente in viaggio con il mio cofanetto, attingendo il necessario da quelle due tasche e trovandolo sempre a disposizione.
Il viaggio andava a meraviglia anche se fino ad allora non avevo riflettuto più di tanto sulla mia avventura poiché aspettavo una evoluzione del tutto naturale di quei singolari avvenimenti, ma un giorno avvenne qualcosa che mi precipitò nello sbigottimento, nell’ansia, perfino nella paura. Dacché ero abituato ad andare in giro giorno e notte per spostarmi da un luogo all’altro, accadeva che spesso viaggiassi nell’oscurità; e nella carrozza, quando le lanterne per caso si spegnevano, si faceva tutto buio. Una volta mi capitò di addormentarmi proprio in una di quelle buie notti, e quando mi svegliai, vidi un chiarore sul soffitto della carrozza. Lo osservai e scoprii che proveniva proprio dal cofanetto dove sembrava esservi una fessura, apertasi forse a causa del caldo e secco tempo dell’estate appena cominciata. Pensai di nuovo ai gioielli, sospettai che nella scatola vi fosse un rubino e desiderai averne certezza. Mi mossi così bene che riuscii a sfiorare con lo sguardo la fessura. Ma come fu grande la mia meraviglia quando vidi una stanza ricca di mobili preziosi e ben rischiarata da luci: era proprio come se stessi intravedendo l’interno della sala di un castello attraverso l’apertura di una parete. Ora riuscivo perfino a osservare un lato della stanza che mi lasciava scorgere anche l’altra parte di quello spazio. Sembrava ardere un fuoco nel camino, accanto al quale si trovava una poltrona. Trattenni il fiato e continuai a guardare. Intanto, dall’altro lato della sala sopraggiunse una donna con un libro in mano. In lei riconobbi all’istante la mia bella, benché la sua immagine si fosse contratta in dimensioni infinitesimali. La bella si sedette con il suo libro sulla poltrona accanto al camino e attizzò il fuoco con degli alari graziosamente minuscoli, e allora potei chiaramente notare che quella piccolissima incantevole creatura era anche, come suol dirsi, in dolce attesa. Ma a un certo punto mi vidi costretto ad abbandonare la mia scomoda posizione, e appena ebbi il tempo di guardare ancora una volta e di convincermi che non era stato un sogno, ecco, la luce scomparve e mi ritrovai a guardare in un vuoto di tenebra.
Si può immaginare come fossi stupito, anzi spaventato. Mi arrovellai in mille elucubrazioni intorno a questa scoperta ma in verità non riuscii a pensare a niente in particolare. Quindi mi addormentai e quando fui sveglio mi convinsi che era stato solo un sogno. Ma mi sentivo in certo modo estraniato dalla mia bella, e trasportando ora tanto più accuratamente il cofanetto, non sapevo se temere o desiderare la sua riapparizione a grandezza naturale.
Dopo qualche tempo, verso sera, lei giunse. Apparizione vera, vestita di bianco, e poiché nella stanza cominciava già a imbrunire, mi parve più grande di quanto fossi abituato a vederla e allora mi venne in mente di aver appreso una volta che tutti gli esseri appartenenti alla stirpe delle ondine e degli gnomi, crescono visibilmente in dimensioni al calar della notte. Come al solito si gettò tra le mie braccia ma io non riuscii a stringerla serenamente al mio petto oppresso.
“Mio caro” – disse – “dal modo in cui mi hai accolta, intuisco bene ciò che purtroppo già sapevo. Tu mi hai vista in un intertempo; sai della situazione in cui mi trovo in certi periodi. Perciò siamo ormai al punto in cui non può che esservi per noi la fine di ogni felicità. Devo lasciarti e non so se ti potrò mai rivedere”.
La sua presenza, la grazia con cui parlò, subito fugarono dalla mia mente quasi ogni ricordo di quel viso che solo poco prima si era librato su di me come in un sogno. La abbracciai con veemenza, la persuasi della mia passione, la rassicurai sulla mia innocenza, le raccontai come avessi scoperto tutto per caso, insomma tanto feci che lei sembrò tranquillizzarsi e alla fine tentò di tranquillizzare anche me. “Rifletti bene” – disse “se questa scoperta non abbia danneggiato il tuo amore. Potrai dimenticare che io accanto a te vivo in due forme? Chiediti se il rimpicciolirsi del mio essere non ridimensioni anche i tuoi sentimenti”.
La guardavo. Era bella come non mai. E tra me e me pensavo: sarà dunque una così grande sventura avere una donna che di tempo in tempo diventa una creatura così piccola da dover essere trasportata in una scatolina? Non sarebbe molto più grave se diventasse una gigantessa e tenesse nascosto il proprio uomo in una cassa? Ero di nuovo sereno, e deciso a non lasciarla più andare per il mondo. “Cuore mio”, le dissi, “lascia che restiamo come siamo stati. Saremmo entrambi più felici. Soddisfa pure ogni tuo bisogno e io ti prometto che trasporterò con tanta più cura la cassetta. Come potrebbe ciò che di più bello ho visto nella mia vita fare su di me una cattiva impressione? Come sarebbero felici gli amanti se potessero possedere simili immagini in miniatura! E alla fine questa immagine cosa sarà mai stata se non un piccolo gioco di prestigio? Mettimi alla prova e vedrai come saprò affrontarla”.
“La cosa è più seria di quanto immagini” disse la bella “anche se sono ben contenta che tu la prenda così alla leggera: per noi, infatti, può ancora schiudersi il più felice degli sviluppi. Voglio fidarmi di te e da parte mia fare il possibile, promettimi soltanto di non rinfacciarmi mai ciò che hai scoperto. Aggiungo ancora, e con insistenza, una preghiera: guardati più che mai dal vino e dalla collera.”
Promisi ciò che desiderava e avrei proferito senza fine i miei giuramenti, se a un certo punto lei non avesse cambiato discorso e insomma, tutto era ormai alle nostre spalle. Non avevamo motivo di mutare il luogo del nostro soggiorno; la città era grande, la compagnia varia, la stagione consentiva molte feste in campagna e nei parchi. La mia bella era ammiratissima, la sua presenza desiderata da tutti: uomini e donne. Un dolce insinuante modo di fare non disgiunto da una certa maestà, la rendeva agli occhi di chiunque, stimabile e degna d’onore. Oltre a ciò suonava splendidamente il liuto e cantava. Il suo talento coronava tutte le notti trascorse in società.
Devo dire però che io non ho mai potuto trarre particolare giovamento dalla musica, anzi il più delle volte ascoltarla ha prodotto in me sgradevoli effetti. La mia bella, avendolo intuito, non cercava mai, quando eravamo soli, di intrattenermi in quel modo. Di questo sembrava poi rifarsi in società, dove di solito trovava miriadi di ammiratori.
E ora, perché dovrei negarlo, la nostra ultima conversazione, nonostante la mia buona volontà, non era per nulla riuscita a farmi dimenticare interamente l’accaduto. Nel mio sentimento c’era qualcosa di anomalo senza che io ne fossi pienamente consapevole. E una sera, in mezzo a una numerosa compagnia, diedi sfogo al mio malumore represso. Me ne derivò un danno terribile.
Se adesso ci rifletto bene, penso che dopo quella infelice scoperta, il mio amore per la ragazza si era un bel po’ sfiammato, e ora stavo diventando geloso, cosa mai successa prima. Una sera, a tavola, dove eravamo seduti uno di fronte all’altra ma piuttosto distanti, trovai gradita compagnia in due fanciulle sedute accanto a me. Le avevo notate da un po’ e mi sembravano incantevoli. Tra scherzi e amorosi conversari non si risparmiò il vino, intanto all’altro lato della tavola due musicofili si erano impossessati della mia bella e sapevano dirigere e incitare la compagnia ai canti, individualmente e in coro. Il mio umore si oscurò; i musicofili mi sembravano importuni; il canto mi rendeva rabbioso, e quando mi chiesero di intonare un assolo, ero davvero al limite, vuotai il calice e lo posai bruscamente. La grazia delle due commensali mi riaddolcì subito, ma la rabbia è una brutta cosa, quando è già per buon tratto avviata e infatti continuava a ribollirmi dentro, benché tutto dovesse riportarmi alla gioia e ricondurmi alla condiscendenza. Altroché! Covavo un’ira tremenda. Fu portato un liuto e la mia bella cantò per la meraviglia di tutti. Sciaguratamente fu imposto un assoluto silenzio, dunque non potei più neanche chiacchierare e i suoni mi facevano venire il dolore ai denti. E non c’è da meravigliarsi se alla fine la minima scintilla accese la miccia.
Aveva appena finito di intonare un canto tra i più grandi applausi, quando mi guardò con occhi pieni d’amore. Purtroppo però il suo sguardo non si fermò su di me, ma notò che avevo mandato giù un’intera coppa di vino e ne avevo riempito un’altra. Con l’indice destro mi fece cenno, graziosamente minacciando: – “Tenete presente che quello è vino” – disse a voce alta appena quel tanto che io potessi sentirla. “L’acqua è per le ondine” gridai. “Mie signore” disse lei, rivolta alle mie due commensali, “intrecciate con grazia una ghirlanda intorno alla coppa, così non sarà vuotata troppo spesso”.
– “Non vi lascerete dominare!” mi sussurrò all’orecchio una di quelle.
“Cosa vuole lo gnomo?” gridai io con violenza rovesciando la coppa.
“Ne è stato versato un po’ troppo” gridò la splendida, sfiorando le corde del liuto, come se volesse distogliere l’attenzione della compagnia dall’incidente e riportarla su di sé. E ci riuscì davvero, soprattutto quando si alzò in piedi, ma solo come se volesse mettersi più comoda per suonare, quindi continuò il suo preludio.
Quando vidi scorrere il vino rosso sulla tovaglia tornai in me, riconobbi il grande errore commesso e fui davvero intimamente contrito. Per la prima volta la musica mi parlò, la prima strofa del suo canto fu un gentile addio alla compagnia, come se lei potesse ancora sentirsi insieme a loro. Con la strofa successiva tutti cominciarono uno dopo l’altro a lasciare la sala, ciascuno si sentiva unico, appartato, come se non fosse più parte della festa. Ma che dovrei allora dire dell’ultima strofa? Era rivolta solo a me: la voce dell’amore offeso che prende congedo dal malumore e dall’arroganza.
Muto, la accompagnai a casa senza aspettarmi nulla di buono, ma appena fummo nella nostra stanza, come si mostrò gentile e soave, addirittura scherzosa, rendendomi l’uomo più felice del mondo! Il mattino successivo le rivolsi amorevolmente la parola, mi sentivo fiducioso. “Tu a volte hai cantato, pregata da quella buona compagnia, come ieri sera, un commovente canto d’addio. Cantami ancora una volta, per amore, un grazioso e lieto benvenuto a quest’ora del mattino, come se ci conoscessimo ora per la prima volta”.
“Non posso farlo, amico mio!” rispose lei con gravità – “il canto di ieri sera si riferiva alla nostra separazione che adesso dovrà cominciare. Posso solo dirti questo: la violazione della promessa e del giuramento avrà per noi due le conseguenze più gravi: ti sei giocato una grossa fortuna e anch’io devo rinunciare ai miei più cari desideri”.